sabato 28 agosto 2010

Breve la vita felice (?) di Pipino il pipistrello

L'altra sera mi sono svegliata per un noto svolazzare in camera, nel mezzo della notte (tengo sempre le finestre aperte): era lui, il pipistrello; ed era ben la terza volta in questa estate. Il primo incontro di quest'anno è stato in una sera di giugno: ero al computer che tengo nel seminterrato (ahimé, sono una tavernicola poco ortodossa), tutto era buio intorno ed ho sentito come un' ala nera che passasse silenziosa (da brivido, vero?). Sono pressocché immune da superstizioni, ma le paure inculcate dall'infanzia mi sono rimaste appiccicate alla pelle, perciò ho avvertito immediatamente un formicolio alla testa (la nonna che diceva: perché, sai... ti si attaccano ai capelli e devi tagliarli se non vuoi che ci facciano il nido!).
In realtà rimpiango un pipistrello in particolare, il nostro pipistrello Pipino. Mi è venuto in mente per la notizia ascoltata oggi al telegiornale regionale: a Vicenza hanno appena celebrato la Notte dei pipistrelli. Ho scoperto anche che c'è gente che ama i pipistrelli e cerca di proteggerli (EUROBATS).
E ora racconto la triste storia di Pipino.
Tornavamo dalle vacanze fatte senza la figlia minore rimasta a casa (perché? non lo ricordo) e abbiamo trovato un nuovo inquilino nel nostro bestiario: lui, cucciolo, pulcino o piccolo - non so come definirlo. Morta la mamma dentro il serbatoio del deumidificatore, lui - o lei - aggrappato/a alla tela del divano, secondo la ricostruzione dei fatti. Così abbiamo cercato di allevarlo.
Eccolo qui il nostro campione.




Ora vuole mangiare - pensiamo noi.



E glielo diamo, omogeneizzato di prima qualità! (Erano cadute nel vuoto le suppliche a figlie e nipote perché procurassero insetti).


Ma breve è la vita felice di Pipino, vittima della follia igienica di noi umani: aveva delle pulci e non essendoci una letteratura illuminante in materia, ci siamo arrangiati nello stesso modo con cui trattiamo cani e gatti di casa.
Forse non ha retto l'affronto.

giovedì 26 agosto 2010

Dalla Grecia antica con amore: parliamo di federalismo

Ho appena finito di leggere il saggio di Ampolo sulla città greca (saggio inserito nell'opera I Greci di Einaudi): è incredibile quanto possano ancora dirci gli antichi sul nostro presente.
In particolare mi ha colpita il concetto di "società faccia a faccia", che nasce appunto nell'ambito della polis (tralascio la questione del diverso concetto di democrazia, che non è comparabile con quello contemporaneo).
Il problema nella polis (entità paragonabile ad uno stato, come oggi lo concepiamo) è combinare la necessità dell'unità con le esigenze particolari delle singole comunità: e quando noi parliamo di federalismo, non ci troviamo forse davanti allo stesso dilemma?
Scrive Ampolo: "In modi diversissimi, che si manifestano nella grande varietà delle istituzioni e dei regimi politici, le città greche hanno combinato lo spirito di comunità con la creazione di un quadro unitario relativamente più ampio, nel quale era importante non solo l'affermazione di una identità unica sul piano politico e religioso (quella della polis) ma anche una partecipazione e un'equa distribuzione di tutto tra le varie componenti."
Invece di blaterare di federalismo in modo strumentale, procedendo per slogan che vogliono dire tutto e niente, sarebbe utile ampliare lo sguardo, ascoltare la storia e la cultura e non pretendere di ridurre una questione così complicata a merce di scambio, semplificando ciò che è per natura complesso.
Ma il tutto sembra nelle mani sbagliate, o per lo meno in teste incapaci di comprendere la complessità. E in questa semplificazione si insinua anche il pensiero che un luogo sia per sempre proprietà di un gruppo e che nessuno possa pretendere di farne parte se è "straniero" o "non omologato".
Così copio Ampolo, e ricorro ad una citazione da Le città invisibili di Italo Calvino:
"... talvolta città diverse si succedono sopra lo stesso suolo e sotto lo stesso nome, nascono e muoiono senza essersi conosciute, incomunicabili tra loro. Alle volte anche i nomi degli abitanti restano uguali, e l'accento delle voci, e perfino i lineamenti delle facce; ma gli dèi che abitano sotto i nomi e sopra i luoghi se ne sono andati senza dir nulla e al loro posto si sono annidati dèi estranei".
Solo l'arroganza dei cretini si permette di pensare che un qualsiasi luogo rimanga uguale a se stesso per sempre, senza cambiamenti, senza apporti di varia natura, senza inquinamenti ad opera della diversità.

mercoledì 18 agosto 2010

L'antigiallo



Se, come ho scritto tempo fa, il giallo decreta il trionfo della razionalità e garantisce il ristabilirsi della giustizia, esiste anche l'antigiallo; che, naturalmente, metterà in scena il fallimento della ragione e, di conseguenza, il non raggiungimento dello scopo primario di ogni indagine: la punizione del colpevole.


Nemico dichiarato del genere poliziesco, Durrenmatt scrive appunto l'antigiallo, anzi scrive "un requiem per il romanzo giallo" : nel suo breve romanzo La promessa (da cui è stato tratto l'omonimo film di Sean Penn) costruisce la sconfitta del detective per eccellenza, l'ispettore Matthai, che, pur avendo correttamente ragionato ed indagato, perderà la partita per una banale casualità.
Marina Polacco, nel suo saggio L'intertestualità, riporta la seguente affermazione di Durrenmatt, molto illuminante sulla natura del genere giallo: "No, quel che mi irrita di più nei vostri romanzi è l'intreccio. Qui l'inganno diventa troppo grosso e spudorato. Voi costruite le vostre trame con logica; tutto accade come in una partita a scacchi, qui il delinquente, là la vittima, qui il complice, e laggiù il profittatore; basta che il detective conosca le regole e giochi la partita, ed ecco acciuffato il criminale, aiutata la vittoria della giustizia. Questa finzione mi manda in bestia". Vero, verissimo, ma è proprio per questo che a me piace questo tipo di narrativa: so bene che è consolatorio, ma dobbiamo sempre soffrire?

domenica 15 agosto 2010

Filosofia e carbonara

Finalmente parliamo di cose serie, ovvero di cibo. E tanto seria è la questione che bisogna scomodare concezioni del mondo; la questione (e costituisce motivo di profondo dissenso tra me e mio marito) è: nella carbonara ci va la cipolla o l'aglio? Premetto che, dovendomi io attrezzare per contestare la tesi avversa (quella appunto del consorte), ho bighellonato un po' tra libri ed internet ed ho scoperto che la carbonara che faccio io è diversa da tante altre. Ma vengo alla materia del contendere: io sostengo (e metto in pratica con palese soddisfazione di tutti quelli che mangiano la mia carbonara) l'uso della cipolla e procedo così: soffriggo la pancetta affumicata; quando è rosolata aggiungo la cipolla affettata e cuocio finché diventa un po' marroncina, ma non tanto; a parte, in una terrina, sbatto due tuorli ed un uovo intero, aggiungo abbondante parmigiano grattugiato, sale, pepe e prezzemolo tritato; quando gli spaghetti sono al dente, li scolo, li passo nella terrina e verso il tutto nel tegame della pancetta e cipolla (senza cucinare, per carità!). E' pronta, mangiamo senza discussioni, poi la solita osservazione: ma ce l'hai messo l'aglio? E qui, appunto, si rivelano due concezioni del mondo opposte:
  • quella di mio marito che, cultore dell'aglio, lo metterebbe dovunque: è un'idea che tende all'omologazione, alla globalizzazione che azzera le differenze - anzi no, rispolvera, addirittura, la reductio ad unum di medievale memoria, perché stabilisce una gerarchia al vertice della quale sta l'AGLIO
  • la mia concezione del mondo, che mi spinge ad usare in alcuni piatti l'aglio, in altri la cipolla, in altri ancora tutti e due; ed è un'idea che dà spazio alla diversità e ne fa un valore.

A parte le facezie, a parte il fatto che continuerò a fare e far mangiare la carbonara alla mia maniera, c'è qualcuno che mi dice se ci si deve mettere la cipolla, oppure l'aglio, oppure tutti e due, oppure nessuno dei due?

venerdì 13 agosto 2010

La vita è sogno ?

Ho visto Shutter Island di Martin Scorsese. E' un regista che mi piace; penso che sia un grande regista. La critica non è concorde nel giudizio su questa sua ultima opera; io mi sono sentita catapultata in un mondo claustrofobico e angoscioso, travolta dalle immagini che catturano quasi fisicamente lo spettatore per imprigionarlo dentro lo schermo.
Un film sulla violenza ? Un film sulla sottile linea che divide follia e sanità mentale ? Non ho letto il libro da cui è tratto (L'isola della paura di Dennis Lehane), quindi considero solo la pellicola in sé; e il mio interesse si concentra su un tema che mi ha sempre appassionata, fin dagli studi liceali di filosofia: la realtà è veramente oggettiva, "reale", oppure è solo una costruzione mentale? Vedere il film per rispondere (o meglio: per non rispondere).

giovedì 5 agosto 2010

Una mostra da non perdere (eppure deserta)


Ieri a Villa Manin (Passariano): eravamo in sette, sei adulti e una bambina. La bambina, forse di sette anni, era con i nonni; sembrava sinceramente interessata. Poi c'erano due giovani donne. Infine mio marito ed io.

Questi i visitatori (in un giorno feriale, per carità... di agosto, per carità...) della splendida mostra sui fratelli Basaldella. L'anziana signora che ci ha venduto il catalogo ci ha detto che i visitatori sono stati pochissimi, e pochissimi, tra loro, i giovani.

Mi sono piaciute le opere di scultura di Mirko e di Dino, alcune più di altre. Di Dino preferisco i pannelli, di Mirko i totem.

Ma i dipinti di Afro mi hanno incantata, soprattutto quelli con il rosso, magari accostato al verde.

Solo due considerazioni (di tanto che ci sarebbe da dire). La prima: la capacità di trasformare la memoria in colore luce e segno è insuperabile e lascia stupefatti, come di fronte ad un miracolo.

La seconda: lo stretto legame con la tradizione veneta del tonalismo situa un artista internazionale come Afro lungo la linea che parte da Giorgione-Tiziano per arrivare fino ai giorni nostri.

Ed una considerazione marginale: tanti sedicenti studiosi di cultura veneta, di lingua veneta, di tradizione veneta, riescono a leggere nell'opera di Afro queste radici? (veramente, in un angolino della mia mente, c'é un'altra insolente domanda: questi sedicenti studiosi di cultura veneta riescono a "leggere" tout court?)