lunedì 21 marzo 2011

I bambini e le favole terribili

Mia nonna me le raccontava, a volte erano proprio paurose; un lupo, parente di quello di Cappuccetto rosso, ma con qualche variante, me lo sono poi sognato diverse volte. Per non parlare di apparizioni di fantasmi. La nonna mi dava per certo che a lei, quand'era bambina, appariva sempre una giovane donna che le veniva incontro in mezzo ai campi, all'imbrunire, una donna che era da poco morta e che la salutava dolcemente. Mi raccontava questa storia con un particolare talento nel dipingere atmosfere sinistre, ed io sentivo un brivido per tutto il corpicino di bimba di sei, sette anni. Interveniva il nonno che per parte sua mi rassicurava dicendo che i fantasmi erano solo il frutto di una grande e mai saziata fame, che a quanto pare soffrivano in parecchi in quella campagna veneta all'inizio del Novecento. La paura mi restava addosso ugualmente. Ma non ne sono morta; nemmeno sono cresciuta pavida, né superstiziosa, né credulona. Tutto sommato ricordo quei racconti come lezioncine di vita (in merito alle inevitabili difficoltà dello stare al mondo).
Penso a tanti, genitori e non, che sarebbero scandalizzati solo al pensiero di raccontare favole truci ai loro bambini. Ma siamo sicuri che vada bene proteggere dalla visione del "male" sempre e comunque, anche se lo presenta una favola?
Il male esiste e forse, facendolo capire a poco a poco, nella forma della favola, si abitua il bambino a comprendere che non tutto è facile e bello nel mondo e che bisogna anche combattere contro la cattiveria.
Così esprime questo concetto il padre di Deza (protagonista de "Il tuo volto domani") :
« ... c'è questa tendenza a racchiudere i bambini in una bolla di felicità che istupidisce e di serenità falsa, a non porli a contatto neppure con quanto possa inquietare, e a evitare che conoscano la paura e perfino che sappiano che esiste, ..., che diano da leggere o leggano loro versioni censurate, raccomodate o edulcorate dei racconti classici di Grimm e di Perrault e Andersen, private dell'aspetto tenebroso e crudele, di quello minaccioso e sinistro, magari perfino dei dispiaceri e degli inganni. Una stupidaggine immensa... Non è che io creda che tutto possa né debba essere raccontato, tutt'altro. Però neppure è ammissibile falsificare in eccesso il mondo e gettarvi dentro idioti e posapiano che non siano mai stati contraddetti e a cui non si sia concessa la minima apprensione».
Perfettamente d'accordo.
E nasce di seguito un'altra domanda: "Quanta verità, soprattutto se può essere sconvolgente, si può raccontare ad un bambino? E come? E quando?
Ma di questo parlerò più avanti.

martedì 15 marzo 2011

Treno e ricordi

Quando ero bambina, figlia di madre veneta e di padre toscano, vivevo divisa in due dimensioni spazio-temporali: quella della scuola in Toscana e quella delle vacanze nel Veneto. Ogni vacanza un po' lunga era l'occasione per scappare su (il percorso mi sembrava sempre verso l'alto) dai nonni.
E il treno era il magico congiungimento tra i due mondi.
Spesso era la nonna a venirmi a prendere, oppure una delle zie più giovani. Quei viaggi rimarranno per sempre nella mia memoria: arrivavamo di notte e alla stazione c'era il nonno ad aspettarci; caricava le valigie sulla bicicletta e ce ne andavamo tutti allegri verso quella che per me era la vera casa.
Ora la stazione è là, semiabbandonata, senza più le funzioni di un tempo.
Perché questo improvviso ricordo?
Nel romanzo di Davanzo Compagni a Quadrivio Zappata ho trovato traccia di quelle emozioni "ferroviarie" (del resto anche il titolo ci porta sul treno...):
«Un treno nel '57 era soprattutto ferro che srotolava la sua corsa sul ferro, senza troppe attenzioni per chi vi era sopra, che sobbalzava sul ritmo dei carrelli che danzavano sui giunti e sulle improvvise deviazioni degli scambi, che davano al suo sferragliare l'intonazione di una nenia greve, ritmata e alla fine soporifera. ... vide i mille colori del verde mescolarsi rincorrendosi a una velocità ipnotica, e i fiumi scavalcati in un attimo gli davano il senso di una corsa fuori dal tempo e verso l'ignoto». E di cosa volesse dire il viaggiare in treno da ragazzo per il protagonista, scrive l'autore: «... percepiva quel distacco, come si trattasse di due dimensioni temporali sfasate e lontane l'una dall'altra, due pianeti distinti e non già due luoghi dello stesso paese».
Struggente.

giovedì 3 marzo 2011

L'educazione dei figli

Quel che più mi piace nei romanzi di Javier Marías è quel suo divagare nei meandri del tempo e della memoria per raccontare qualcosa che sempre mi sorprende nella sua famigliarità: sono, spesso, annotazioni che stimolano la mia, di memoria.
Il protagonista di "Il tuo volto domani" racconta-ricorda il figlio (e il ricordo del bambino, e poi ragazzetto, gli è richiamato da un altro bambino, e quest'ultimo, a sua volta, da un altra immagine del passato in una catena che si snoda lungo le direttive del tempo): e a questa catena anch'io mi riallaccio, lettrice che continua fuori del libro la vita del libro. Perché le sue considerazioni sull'educazione dei figli mi fanno venire in mente una bambina di tanti anni fa.
«... e cominciavo a temere per lui, era molto paziente e protettivo con la sorella e spesso partecipava fin troppo e cedeva, come chi sa che è cosa nobile e retta che cedano sempre i forti davanti ai deboli non tirannici e non abusivi, un principio oggi antiquato, perché oggi di solito sono spietati i forti e dispotici i deboli... soffrono molto nella vita coloro che fanno da scudo, e i sorveglianti, con il loro occhio e il loro udito sempre desti. E quelli che vogliono giocare pulito a oltranza...»
E come il protagonista, anch'io a volte mi sono chiesta se sia stata una giusta educazione la mia:
«A volte mi domando se non sono un cattivo padre per non averlo addestrato, per non avergli insegnato ciò che conviene: astuzie, furberie, intimidazioni, cautele, lamenti; e ancora egoismo.»